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David Bowie, la poliedricità del mito

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bowieAd appena qualche giorno dalla sua scomparsa, i doverosi omaggi al “duca bianco” si sprecano. Un personaggio controverso che più di ogni altro ha saputo imprimere alla cultura musicale del suo tempo un ruolo di indiscussa importanza. Scevro da ogni tipo di condizionamento artistico, è stato il produttore e curatore principale della sua immagine che ha saputo vendere con sagace furbizia ed acume da esperto imprenditore musicale. Negli anni ’70 ha impersonato quello che nei decenni precedenti era stato palcoscenico incontrastato di Elvis e dei Beatles. Lui , figlio indiscutibile della cultura psichedelica e underground degli anni ’60, fece del marketing musicale una vera e propria arte. Musicista non eccelso, seppe sopperire alle lacune di tipo tecnico con un approccio autoriale del tutto personale e sperimentale come è abitudine dei geni di ampia veduta e prospettiva. Nelle sue canzoni possiamo trovare un caleidoscopio di contenuti e di significati che fonda le sue radici nel pop britannico con forti venature folk che lo riconducono inevitabilmente alla scena principale di quegli anni dove autori come Bob Dylan, Leonard Cohen e tanti altri la fanno da padrone. Ed, inoltre, la capacità di ricalcare gli stilemi della forma classica della ballata tradizionale con motivi che rimangono fortemente impressi (basti pensare al ritornello di “ Starman “) fa in modo che le sue composizioni entrino di di diritto nell’immaginario collettivo del pubblico dell’epoca. Se poi alla componente prettamente musicale ci aggiungi un’immagine che più di ogni altro rinnovò in maniera cadenzata ed abitudinaria, allora il gioco è fatto. Lo si trova prima Kitsch, poi blasfemo e dopodiché signore affascinante e dandy decadente alla Oscar Wilde. Metto la mano sul fuoco che se dovessimo ricordarci di una specifica immagine del Nostro, penseremmo prima ad una e poi ad un’altra perdendoci nella varietà delle sue maschere. E ciò è il segreto di quel successo, di quel modo di imporsi che incarna il pensiero di warholiana memoria di pop art di continuo flusso, movimento e dissacrazione. Senza dilungarmi in pedanti rivisitazioni della sua opera artistica, mi limiterò a ricordare gli album che segnarono la sua carriera artistica. “Space oddity”, “Honki Dori “, “Rise and fall of ziggy stardust” e “ Heroes “ rappresentano l’apice musicale di Bowie e che vantano session man di eccelso valore come il tastierista Rick Wackemann e Mick Ronson alle chitarre. La loro forza sta in una felice sintesi tra canzoni scritte bene ma con produzioni che spiccano il volo grazie ad un suono antesignano e rivoluzionario per l’epoca superando, a tratti, il “Wall of sound” di gente come Phil Spector. Il miglior modo di ricordarlo? Soffermiamoci ad analizzare uno dei suoi più grandi lavori, “Life on Mars “, dove , una volta partita la base, non possiamo rimanere indifferenti a ciò che ascoltiamo. Una sinfonia pop di 3 minuti spettacolare che ricorda un Lied di Brahms con la potenza della drammaticità beethoveniana e intriso, nello stesso tempo di dolcezza mozartiana. Un Romanticismo post-litteram a cui si abbina un video di suggestiva forza espressiva girato con filtri particolari che evidenziano il personaggio Bowie che appare etereo, quasi femmineo, androgino. Un vero e proprio capolavoro! Ciao Duca, ci mancherai tanto.