“Un ragazzo d’ oro”: il genio di Pupi Avati tra intimismo e artigianato.

riccardo-scamarcio-Con “Un ragazzo d’oro” siamo alla pellicola numero 39 per Pupi Avati, cineasta ed ex jazzista bolognese. Abituati alla sua poliedricità, potremmo definirlo un varius, multiplex, multiformis, la prima domanda che viene da porci è: cosa ci proporrà questa volta il nostro Pupi? Un horror, un film fantastico o una commedia in costume agrodolce? Be’, sicuramente una storia amara quella di quest’ ultima fatica, ma anche intima, sempiterna e a tratti angosciosa. Ma entriamo, senza indugio, nel plot della pellicola. Davide Bias (Scamarcio) è un pubblicitario frustrato, con il sogno della scrittura. E’ un uomo tutt’ altro che amabile. Convive quotidianamente con ansia e insoddisfazione e per tenerle a bada ingurgita pillole. La fidanzata, Silvia (Capotondi), non sa come sollevarlo dalle sue insicurezze. Quando apprende dalla madre (Ralli) della morte del padre, sceneggiatore di film di serie B, finito in un dirupo dei Castelli Romani,  da Milano si trasferisce a Roma. Qui incontra Ludovica (Stone), un’editrice interessata a pubblicare un libro autobiografico che il vecchio Bias aveva intenzione di scrivere. Scamarcio è molto sofisticato. Da tempo ha smesso le vesti del belloccio e con abilità interpreta il ruolo di un giovane uomo, intellettuale con la foto di Pasolini in camera, che snobba il passato cinematografico pop-trash del padre (si vedrà una scena di “Dove vai se il vizietto non ce l’hai?” di Marino Girolami come esempio dei film cui lavorava Bias senior, sulla scia de “Il Caimano” interpretato da Silvio Orlando nella pellicola di Nanni Moretti). Davide comincerà un viaggio nel passato del padre che lo porterà  a rivalutare la figura dell’ uomo, anch’egli valido scrittore mortificato dai meccanismi commerciali, ma anche alla perdita dell’identità, fino all’ identificazione con lo stesso. C’è, poi, la Stone che (dobbiamo dirlo!) è doppiata davvero orrendamente. Nonostante si allunghi la gonna a nascondere le gambe durante il loro primo incontro, con un chiaro rimando a contrario alla scena cult di “Basic Instinct”, l’amica americana del padre interpreta una donna pericolosa e fatale. In superficie “Un ragazzo d’oro” fa perno sul mistero della morte del vecchio Bias. Suicidio? Omicidio? Tuttavia, è presto chiaro il vero nodo del film, il rapporto tra Davide ed il padre. Il giovane avverte ancora tutto il peso di un padre ingombrante, che mai gli è stato di conforto. E durante la visione del film una serpe avvelenava i miei pensieri. È sempre vero che un genitore vuole tutto il “bene” di un figlio, o, in casi particolari,  può accadere che avvertendone inconsciamente la superiorità intellettuale, inconsapevolmente lo mortifichi, castri impedendone l’ emancipazione? A voi la riflessione.  Ma tornando alla pellicola, lo sviluppo dell’intreccio è debole e lascia  irrisolto il dilemma relativo alla morte del Bias più famoso. Un accenno alla fotografia e ai luoghi. Se ci trovassimo di fronte ad una scena del film durante uno zapping serale, ignorando chi sia il regista, ad istinto penseremmo a Pupi Avati. La sua cifra stilistica è palese. E’ tutto molto artigianale, antiquatamente moderno, quotidiano e a tratti triste. Ricordiamo le musiche originali e suggestive di Raphael Gualazzi. Dunque, è questa senz’ altro un’ opera alta, di nicchia, per un pubblico attento e sensibile. Concluderei con le parole di un grande giornalista, Tullio Kezich: “Avati si riserva la facoltà di presentare eroi e antieroi vivi e concreti. Un’altra sua caratteristica è quella di spaziare da un genere all’altro, tant’è vero che non si può mai prevedere se il suo prossimo film sarà una commedia intimista o un horror. Sappiamo solo che questo appuntamento fisso, anno dopo anno, possiamo aspettarlo con fiducia[…]”.


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