Roberto Saviano è arrivato nell’aula 116 del Tribunale di Napoli, dove si sta svolgendo il processo per le presunte minacce rivolte a lui, nel 2008, e alla giornalista del Mattino, ora senatrice PD, Rosaria Capacchione, dai boss dei Casalesi Francesco Bidognetti ed Antonio Iovine. La sentenza è attesa per il pomeriggio e chiuderà il processo. Gli imputati, Bidognetti e Iovine, con i rispettivi ex avvocati, Michele Santonastaso e Carmine D’Aniello, rischiano fino a un anno e sei mesi di carcere. La vicenda giudiziaria è durata due anni. Per la sentenza è prevista in Aula molta partecipazione. Presenzierà Pif, sensibile al tema della criminalità organizzata, regista di un’opera prima da lacrime, “La mafia uccide solo d’estate”. Di seguito alcuni dei pensieri che si rinvengono sulla pagina fb dello scrittore:
“Ed eccomi qui, nella stanzulella dove ogni volta aspetto che inizino le udienze. Tra queste quattro mura ormai mi sento a casa. Ogni tanto entra un giornalista. Più raramente un amico venuto a darmi coraggio”.
“Risveglio in caserma. Per me Napoli da otto anni è questo: caserma e tribunale.”
Saviano scrisse per la prima volta di Bidognetti e Iovine su Repubblica del 6 luglio 2007, indicandoli come i rappresentanti della nuova camorra casalese. Scrive Eugenio Scalfari al riguardo: “La tesi di Saviano sostiene che i fenomeni mafiosi condizionano l’intera politica e l’intera economia del nostro Paese e determinano la corruzione, l’evasione fiscale, il lavoro nero. Se si cambiasse questa situazione si trasformerebbe l’intero assetto della vita pubblica italiana. Le reiterate denunce di Saviano sono rimaste in gran parte lettera morta. Dal processo di Napoli è emerso quanto importante sia stato il ruolo della stampa libera, di Saviano e del suo libro nella lotta alla camorra. E’ questa la ragione per cui l’esito del processo di Napoli contro la banda dei Casalesi è fondamentale”. Ma da giovane donna napoletana mi fermo per un istante agli occhi di Roberto. Ci sono degli sguardi, delle espressioni che non si possono dimenticare, perché tagliano lo stomaco, smuovono le viscere. Gli occhi di Roberto, così velati di melanconia, di martirio. Gli occhi di chi ha per sempre rinunciato ad una passeggiata a San Gregorio Armeno a Natale, gli occhi di chi ha rinunciato ad una pizza tra i vicoli dei Tribunali di Napoli, gli occhi di chi ha rinunciato ad un cornetto da Ciro a Mergellina di notte, dopo una serata tra amici, gli occhi di chi ha rinunciato ai fracassi notturni dei ragazzi in motorino, delle donne dei bassi dei quartieri antichi, gli occhi di chi ha rinunciato al sole perenne del Vesuvio, gli occhi di chi ha rinunciato al San Carlo, al Bellini, all’odore di caffè al mattino presto e a tutto il resto, gli occhi di chi è costretto ad una vita da straniero in terra natia. Perché è questo che sente Roberto, o almeno lo credo, immedesimandomi. Sente il distacco, la freddezza e il dolore di un legame spezzato, che prima era ombelicale. E’ per questo che lo ammiro, non già per gli illuminanti testi, per le denunce, per la missione di legalità, ma per il sacrifico umano, per la condanna che si è inflitto, per aver rinunciato, per sempre, al calore del sentirsi a casa.