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Magic in the Moonlight, ovvero non c’è più l’Allen di una volta

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Magic-in-the-moon-light-posterC’è sempre qualcosa di confortevole nell’assistere a un film di Woody Allen, perché si sa esattamente cosa aspettarsi. Il suo stile è riconoscibilissimo e inconfondibile e celebri sono i tòpoi che caratterizzano le sue opere. Tra questi, rifacendosi alle pellicole recenti, vi sono la musica jazz, la predilezione per i dialoghi corposi, le ambientazioni da sogno, le discettazioni intelletualoidi e il costante psicanalizzare tutto e tutti. Magic in the Moonlight , ultima pellicola del regista newyorkese, non fa eccezione e si propone al pubblico come titolo spiccatamente alleniano, forse solo un poco più romantico dei suoi predecessori.

Siamo alla fine degli anni Venti del secolo scorso, in una (per volontà della fotografia) soleggiata e a volte “appannata” Costa Azzurra. Qui si incontrano l’inglese

Stanley Crawford (un misurato Colin Firth) e la delicata Sophie Baker (interpretata da Emma Stone). Il primo si guadagna da vivere calandosi negli irriconoscibili panni del prestigiatore cinese Wei Ling Soo, ma nella vita di tutti i giorni è un uomo fortemente razionale che disconosce la magia e tutto ciò che la scienza non spiega. La giovane Sophie invece è una chiaroveggente che guadagna sulle altrui debolezze. Da un siffatto rendez-vous ci si attende un sicuro scontro ed è ciò che capita. Crawford cercherà di smascherare la Baker più volte, fino a che resterà lui stesso ammaliato dalle sue doti di medium e inizierà a dubitare di ciò in cui aveva sempre creduto. L’uomo che aveva fatto del raziocinio il suo perno si innamora di quella che credeva una ciarlatana e inizia a intravedere un mondo differente, dove l’inspiegabile può aver luogo.

Proprio sul rapporto tra i due protagonisti Allen sceglie di concentrarsi, rendendo Magic in the Moonlight un film prima di tutto romantico, una storia d’amore, invero abbastanza sdolcinata e prevedibile. Pesa la verbosità che soggiace a ogni affermazione pronunciata e che non è appannaggio esclusivo dei protagonisti. Le chiacchiere hanno un carattere vacuo che se all’inizio può apparire piacevole, alla lunga finisce con lo stancare. La sceneggiatura è piuttosto semplice e priva di spessore e dunque l’intero film risulta poco interessante e alquanto noioso. I personaggi e le ambientazioni sono le tipiche di Allen, ma ciò costituisce un vantaggio quando la base è solida e uno svantaggio quando questa è traballante come nel caso in questione. La confezione che ci viene presenta è impeccabile, capace di farci sognare a occhi aperti, ma una volta scartata, ciò che resta è un pedante marciare su temi opposti quali razionalità e irrazionalità, magia e realtà e la fastidiosa sensazione di sapere già dove il film andrà a parare. Anche per gli irriducibili di Woody Allen sarà arduo difendere questa pellicola e riconoscervi lo stile di un tempo. Se è vero che quest’ultimo ha subito cambiamenti negli anni, è anche innegabile un calo qualitativo di cui purtroppo reca traccia lo stesso Magic in the Moonlight.