Nel corso dell’esperienza cinematografica molti registi hanno avuto la sfortuna di essere etichettati come personaggi che non hanno saputo dare una decisa impronta alle loro pellicole, tanto da essere considerati senza talento oppure come incapaci di entrare nell’immaginario collettivo grazie ad uno spunto di originalità filmica e narrativa. Entrando poi di conseguenza nella triste logica del “successo di cassetta” che non poteva che garantire un modesto profitto come ideale e scontato seguito della loro carriera.
Mentre ce ne sono stati altri che consci della sacralità della vita come esperienza unica e irripetibile si sono calati nella loro professione con una tale dedizione, amore e passione per il proprio lavoro che assumevano quasi quotidianamente il rischio di non essere compresi o, peggio, di cadere in un flop commerciale di straripante entità. Il regista inglese Ken Russell rientra prepotentemente in questa ristretta ed elitaria categoria. Bisogna subito dire che i tratti distintivi del suo stile sono l’eccesso e la provocazione unite ad una bizzarria visiva, interpretativa e scenografica che richiamano lo spettatore ad una perdita barocca dei sensi. Le storie che racconta sono di un’intensità che lascia il fiato. Solitamente ha affrontato nei suoi film biografie di grandi musicisti, pittori ed artisti presi da varie discipline in un modo volutamente e dichiaratamente fuori dalle canoniche e stereotipate rappresentazioni del genere di appartenenza. Prendiamo l’eccentrica, sregolata biografia del compositore austriaco Listz (“Lisztomania” 1975). In questa pellicola si crea quasi una mitologia della visione, una totale perdita del controllo dell’immagine che quasi esce fuori dallo schermo tanto è prepotente. Ma traspare anche un’altra concezione di vita: l’idea della dannazione che si tramuta quasi magicamente in idea di bellezza apollinea mixando queste due componenti con inquadrature da brivido, scene di sesso, richiami anacronistici a Charlie Chaplin, l’amore e odio verso Richard Wagne e dove il senso del grottesco impera in ogni fotogramma (vedi la scena del batterista dei Beatles, Ringo Starr, che interpreta un improbabilissimo Pontefice). Ma è nelle tematiche riguardanti il sacro e il profano che il regista inglese dà il meglio di se. Non poco frequenti sono stati gli attacchi nonché i numerosi tagli che la severa censura britannica ha imposto ai suoi film. Del resto era ampiamente immaginabile visto la dissacrante mole che si riversa in ogni suo singolo fermo-immagine. Il provocatorio e presuntuoso “I diavoli” (1971) costruisce una modalità interpretativa di grande fascino e impatto. Alcune scene posso risultare ridondanti ed eccessive all’occhio del pubblico medio il quale pur potendo provare un comprensibile fastidio di fronte a tanta originalità ne rimane comunque affascinato, turbato, incuriosito. Nel suo capolavoro “Stati di allucinazione” ( 1980 ) l’uso ricorrente agli effetti speciali di forte impronta psichedelica lo inducono a modificare il suo percorso scenografico che diventa quasi manierista. La storia della regressione della civiltà umana dal momento in cui viene raccontata fino agli albori del primo esemplare dell’uomo e ancora più indietro fino alla nascita fisica del nucleo che poi si ricongiunge in un approccio metatemporale alla dimensione degli affetti e, in particolare, dell’amore come elemento catartico finale che chiude in modo sereno il ciclo della vita. Il regista inglese arriva a questo finale attraverso un percorso delirante che non risparmia nemmeno riferimenti all’Apocalisse biblica e al Cristo crocifisso con le sembianze di caprone dai sette occhi. Una scena, questa, che non può non sconvolgere chi l’ammira provandone un senso di disgusto, di meraviglia e quant’altro. Raramente il cinema ha saputo raggiungere vette espressive così dirompenti a mio parere. L’ immagine che riversa nei suoi film, infatti, è rappresentazione ed esprime difficilmente qualcosa di vuoto. Diventa fine a se stessa quando si carica di messaggi troppo pretenziosamente didattici, moralistici e che vanno a sensibilizzare in maniera fittizia gli occhi dell’ingenuo spettatore. La continua ricerca di strane angolazioni fa in modo che i suoi flashback assumano dei contorni quasi proustiani dove il ricordo fa da cornice a situazioni di vita estremamente vissute e mai scontate. Lo schermo, sempre invaso di colori, e il suo geniale montaggio, di chiara derivazione surrealista, sono la chiara rappresentazione di un modo di fare cinema sfrontato, barocco, estremo e continuamente in bilico fra cattivo gusto e magnificenza. La settima arte è vista come pulsione oscura e attraverso i suoi risvolti più repressi. L’elemento scenografico e coreografico si ammira in tutta la sua pulsione vitale che vuole contrapporsi al vero motivo conduttore della sua poetica. La paura della morte. La si esorcizza e la si evidenzia attraverso gli aspetti più macabri. Da questa consapevolezza nasce quello stato di accettazione e serenità con l’ausilio di altre tematiche che si rifanno al contesto chiaramente dionisiaco della danza e del sesso. I suoi primi piani mettono in risalto la profonda solitudine dell’essere umano che si tenta di celare con il comportamento provocatorio e fuori le righe.
L’uomo è un animale che vive con gli altri ma è sostanzialmente solo con le sue paure ed angosce quotidiane. Ma è comunque attraverso se stesso che inizia quel processo di rinnovamento personale, si cala in una parte che è sempre in bilico tra sogno e realtà e con il suo comportamento contribuisce a definire la vita stessa come qualcosa che ci sfugge, di imperscrutabile. Ma forse proprio per questo degna di essere intensamente vissuta proprio per ricavare da essa l’istinto primordiale che ci ricongiunge ai suoi aspetti migliori.