Dopo l’approvazione della legge delega sul lavoro in Commissione Lavoro del Senato, il Jobs Act proseguirà l’iter di approvazione in aula. Approvato anche l’emendamento al ddl contenente la novità principale voluta da Matteo Renzi e dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Poletti nella riforma del lavoro, ossia il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio. Significa che inizialmente il lavoratore non avrà nessun diritto e che questi diritti “matureranno” gradualmente, ossia soltanto dopo un determinato periodo di tempo a servizio dell’azienda. In concreto, si è posta in questi giorni la questione dei licenziamenti discriminatori, molto probabilmente previsti per i lavoratori “neoassunti”.
Per i lavoratori che avranno maturato una certa anzianità di servizio, si prevede soltanto il pagamento di una penale da parte del datore di lavoro che sarà calcolata proprio in proporzione al periodo di attività prestata in quella azienda. E’ chiaro, quindi, che la conseguenza di ciò è la necessaria modifica dell’art. 18, riguardante proprio i licenziamenti. Sul punto non è però mancato il dissenso, se non la spaccatura, di molti esponenti del Pd, per i quali ulteriori modifiche sono ancora necessarie a tutela dei lavoratori al fine di scongiurare molteplici licenziamenti senza giusta causa. Non solo. In una posizione più estremista si sono posti gli onorevoli del Movimento Cinque Stelle e di Sel, che hanno lasciato l’aula durante la seduta di approvazione degli emendamenti in seguito al parere contrario dell’esecutivo.
Anche i sindacati si sono scagliati contro il premier nelle ultime ore. In particolare, Susanna Camusso, segretario generale della CGIL, ha paragonato Renzi alla Thatcher e a Berlusconi, etichettandolo come “uno di destra”. Non ha fatto attendere molto Renzi, che ha rilanciato con delle dichiarazioni nette: “Difendere l’attuale mercato del lavoro significa difendere la diseguaglianza. Dobbiamo attirare nuovi investimenti, perché senza nuovi investimenti non ci saranno posti di lavoro e aumenteranno i disoccupati. Ma dobbiamo anche cambiare un sistema ingiusto che divide i cittadini in persone di serie A e di serie B e umilia i precari”. In una lettera indirizzata agli esponenti del Pd, il premier ha poi affermato: “Chi oggi difende il sistema vigente, difende un modello di diseguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall’età. Noi vogliamo difendere i diritti di chi non ha diritti. Quelli di cui nessuno si è occupato fino ad oggi”.
Per quanto riguarda l’iter previsto per l’approvazione della riforma, nel calendario dei lavori fissato per i prossimi giorni al Senato è stata appunto inserita la discussione sulla delega del lavoro. La legge delega è un testo votato dalle camere, contenente una serie di principi e criteri direttivi che il governo dovrà seguire per legiferare attraverso uno specifico strumento: il decreto legislativo. Il decreto entra in vigore dopo l’approvazione in Consiglio dei Ministri, senza che ci sia alcun voto in aula. Il governo ha avanti a se, pertanto, una prova non facile da superare, alla luce soprattutto dei dissensi all’interno del Pd. Staremo a vedere fino a che punto si spingerà la discussione e fino a che punto il premier sarà disposto ad ascoltare le proposte dei dissidenti su un’ulteriore riforma cruciale per il futuro del Paese, l’unico Paese che non cresce.